Costruire il consenso
La lettura di quest'intervista a Noam Chomsky sull'intervento militare statunitense in Afghanistan mi ha lanciato alcuni stimoli che mi piacerebbe sviluppare in questo momento, e che riguardano - in prima istanza - lo schieramento politico dei media americani (naturalmente bilanciati a favore) a proposito del conflitto.
Chomsky sostiene che negli USA non esiste una vera e propria agenzia propagandistica governativa, né un orwelliano "ministro della verità" che censura tutte le opinioni e tutte le informazioni non uniformate al regime. "Qui la stampa è sostanzialmente libera di agire come vuole". Naturalmente ci sono pressioni dall'alto, ma in linea di principio non si è vincolati ad alcunché di prestabilito. Nonostante questo, l'uniformità di attitudini dinanzi alla guerra in Afghanistan da parte dei maggiori media è impressionante. Chomsky fa un paragone con la Germania all'epoca della Prima Guerra Mondiale, la quale, sprovvista di istituzioni di propaganda (di cui erano invece forniti Gran Bretagna e USA), godette di un amplissimo consenso da parte dei suoi intellettuali di maggior rilievo, pur provenienti da diversi retroterra culturali e politici.
E' poi chiamata in causa la candida testimonianza di un giornalista della CBS, Dan Rather, insistente in pratica su un punto: in America l'informazione sulla guerra è meno critica rispetto al resto del mondo perché sussiste il timore di essere etichettati come "antipatriottici". Questa, che può sembrare una ragione di scarsa importanza, va invece inserita nel contesto culturale statunitense, il quale evidentemente prevede una sorta di gogna pubblica, di esilio intellettuale, a chi infrange i "mores", i valori, cioé a chi non è patriottico. Chiamando in causa le parole di Chomsky, "non è una questione di educazione scolastica, ma dell'intero sistema".
Però, naturalmente, i motivi non risiedono tutti qui (e neanche lo stesso Chomsky lo afferma, ma non si dilunga in altro genere di dissertazioni). Può darsi che esistano "persone benestanti che non hanno interesse affinché certe idee vengano espresse".
Nel saggio Global Media, Neoliberalism & Imperialism, Robert McChesney rileva la seguente situazione: "Specifiche industrie mediatiche stanno diventando sempre più concentrate, e i giocatori dominanti in ogni industria mediatica stanno diventando sussidiari di conglomerati mediatici globali [...] Il mercato mediatico globale è in mano a sette multinazionali: Disney, AOL Time Warner, Sony, News Corporation, Viacom, Vivendi, e Bertelsmann. Delle sette, solo tre sono squisitamente statunitensi, sebbene tutte abbiano interessi in America. Queste sette compagnie possiedono i maggiori studi cinematografici americani, tutti - tranne uno - i network televisivi americani, controllano l'ottanta percento della musica globale, hanno la preponderanza delle trasmissioni su satellite, una significativa percentuale di pubblicazione di libri e riviste, [...] gran parte della televisione tradizionale Europea, e così via."
Dinanzi ad un quadro del genere, non è difficile comprendere come il mondo del giornalismo, dell'informazione e della cultura in genere siano sempre più uniformati agli interessi di suddetti giganti, instillando un costume politico conveniente alle major.
Ben Bagdikian fa notare un fondamentale particolare: "nel 1983, la più grande compagnia della storia era materia di 340 milioni di dollari, quando la Gannett Company, una catena di quotidiani, acquistò la Combined Communications Corporation, proprietaria di quadri per le affissioni pubblicitarie, giornali, e stazioni broadcast. Nel 1996, quando la Disney si unì ad ABC/Cap Cities, era un affare di 19 miliardi di dollari, cinquantasei volte più grande". Nacque un gigante, con le sue mire sul mercato e la sua politica commerciale.
"La democrazia rappresentativa non si caratterizza come un governo del sapere ma, appunto, come un governo dell'opinione, fondato su un pubblico sentire de re pubblica". Ce lo insegna il Sartori (in Homo Videns, pagina 44, Laterza). Ma, se questo sentire, se l'opinione pubblica ricalca il sistema di idee proposto da pochi padroni dell'informazione (che poi sono anche padroni, come si è visto, del cinema, della televisione, della musica), beh, il cerchio si chiude: ad eleggere i propri rappresentanti politici sarà un pubblico informato e formato (si perdoni il gioco di parole) da succitati oligarchi, e si insedieranno al governo personalità allineate al sistema.
Altro che ministro della verità.
Chomsky sostiene che negli USA non esiste una vera e propria agenzia propagandistica governativa, né un orwelliano "ministro della verità" che censura tutte le opinioni e tutte le informazioni non uniformate al regime. "Qui la stampa è sostanzialmente libera di agire come vuole". Naturalmente ci sono pressioni dall'alto, ma in linea di principio non si è vincolati ad alcunché di prestabilito. Nonostante questo, l'uniformità di attitudini dinanzi alla guerra in Afghanistan da parte dei maggiori media è impressionante. Chomsky fa un paragone con la Germania all'epoca della Prima Guerra Mondiale, la quale, sprovvista di istituzioni di propaganda (di cui erano invece forniti Gran Bretagna e USA), godette di un amplissimo consenso da parte dei suoi intellettuali di maggior rilievo, pur provenienti da diversi retroterra culturali e politici.
E' poi chiamata in causa la candida testimonianza di un giornalista della CBS, Dan Rather, insistente in pratica su un punto: in America l'informazione sulla guerra è meno critica rispetto al resto del mondo perché sussiste il timore di essere etichettati come "antipatriottici". Questa, che può sembrare una ragione di scarsa importanza, va invece inserita nel contesto culturale statunitense, il quale evidentemente prevede una sorta di gogna pubblica, di esilio intellettuale, a chi infrange i "mores", i valori, cioé a chi non è patriottico. Chiamando in causa le parole di Chomsky, "non è una questione di educazione scolastica, ma dell'intero sistema".
Però, naturalmente, i motivi non risiedono tutti qui (e neanche lo stesso Chomsky lo afferma, ma non si dilunga in altro genere di dissertazioni). Può darsi che esistano "persone benestanti che non hanno interesse affinché certe idee vengano espresse".
Nel saggio Global Media, Neoliberalism & Imperialism, Robert McChesney rileva la seguente situazione: "Specifiche industrie mediatiche stanno diventando sempre più concentrate, e i giocatori dominanti in ogni industria mediatica stanno diventando sussidiari di conglomerati mediatici globali [...] Il mercato mediatico globale è in mano a sette multinazionali: Disney, AOL Time Warner, Sony, News Corporation, Viacom, Vivendi, e Bertelsmann. Delle sette, solo tre sono squisitamente statunitensi, sebbene tutte abbiano interessi in America. Queste sette compagnie possiedono i maggiori studi cinematografici americani, tutti - tranne uno - i network televisivi americani, controllano l'ottanta percento della musica globale, hanno la preponderanza delle trasmissioni su satellite, una significativa percentuale di pubblicazione di libri e riviste, [...] gran parte della televisione tradizionale Europea, e così via."
Dinanzi ad un quadro del genere, non è difficile comprendere come il mondo del giornalismo, dell'informazione e della cultura in genere siano sempre più uniformati agli interessi di suddetti giganti, instillando un costume politico conveniente alle major.
Ben Bagdikian fa notare un fondamentale particolare: "nel 1983, la più grande compagnia della storia era materia di 340 milioni di dollari, quando la Gannett Company, una catena di quotidiani, acquistò la Combined Communications Corporation, proprietaria di quadri per le affissioni pubblicitarie, giornali, e stazioni broadcast. Nel 1996, quando la Disney si unì ad ABC/Cap Cities, era un affare di 19 miliardi di dollari, cinquantasei volte più grande". Nacque un gigante, con le sue mire sul mercato e la sua politica commerciale.
"La democrazia rappresentativa non si caratterizza come un governo del sapere ma, appunto, come un governo dell'opinione, fondato su un pubblico sentire de re pubblica". Ce lo insegna il Sartori (in Homo Videns, pagina 44, Laterza). Ma, se questo sentire, se l'opinione pubblica ricalca il sistema di idee proposto da pochi padroni dell'informazione (che poi sono anche padroni, come si è visto, del cinema, della televisione, della musica), beh, il cerchio si chiude: ad eleggere i propri rappresentanti politici sarà un pubblico informato e formato (si perdoni il gioco di parole) da succitati oligarchi, e si insedieranno al governo personalità allineate al sistema.
Altro che ministro della verità.
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