domenica, settembre 25, 2005

Che nessuno intralci il profitto

da L'Espresso #39, 29 settembre 2005, pagina 171

"L'ipocrisia di Yahoo
di Franco Carlini


Gli affari sono affari, specialmente quando in ballo c'è un investimento da un miliardo di dollari e ciò spiega, ma non giustifica, l'ipocrita dichiarazione di Jerry Wang, uno dei fondatori del portale Internet Yahoo!.
Egli ha difeso la decisione della sua filiale cinese di fornire le informazioni necessarie alla polizia di quel paese, grazie alle quali il giornalista dissidente Shi Tao, è stato identificato, arrestato e condannato a 10 anni di prigione. Shi Tao aveva usato la sua mail su Yahoo! per mandare negli Stati Uniti notizie che il governo reputa segrete: si trattava banalmente di un avviso del governo ai giornalisti, sui pericoli della presenza dei dissidenti dell'anniversario di piazza Tiananmen.
Secondo Yang, che si è rifiutato di entrare nei dettagli, la sua azienda deve rispettare le regole dei paesi in cui opera e non poteva fare diversamente.
[...]
Ben diversamente tuttavia Yahoo! si comportò nell'anno 2000, quando venne denunciata in Francia da associazioni antirazziste perché nella sua area di e-commerce venivano offerti dei cimeli nazisti.
In quell'occasione Yang e Filo, i due ex ragazzi di Stanford, fondatori dell'azienda, dissero che non era possibile adeguarsi ad ogni minima legge di ogni diverso Stato e rivendicarono il loro diritto a non essere giudicati in Francia, essendo globale la Rete e comunque americana la competenza legale. Tale punto di vista unilaterale venne ribadito da un giudice americano nel 2002".

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Questo caso si accoda ai tanti altri sull'argomento, e che vede importanti aziende del Web adattarsi e piegarsi alle disposizioni dittatoriali della Repubblica Popolare Cinese pur di tutelare i loro investimenti. In quest'occasione la violazione della privacy (che, anche se non legale, è un concetto acquisito in un mondo autoproclamatosi "globalizzato"), la repressione della libertà di stampa, e dieci anni di galera sono valsi un miliardo di dollari.

La New Economy orientale fa gola a tante multinazionali occidentali: ad esempio, Baidu.com, il più sfruttato motore di ricerca cinese, ha esordito al Nasdaq il 5 agosto scorso a 66 dollari, chiudendo nella stessa giornata sopra ai 122. Reduci dalle glorie e soprattutto dai tonfi del mercato tecnologico occidentale di questi ultimi dieci anni, gli affaristi statunitensi, europei e giapponesi scorgono nella Cina (ma anche nell'India e nella Corea del Sud) una grandissima occasione di riscatto e di affermazione. La Repubblica Popolare offre infatti un bacino d'utenza attualmente di cento milioni di individui, destinato a raddoppiare in pochissimi anni.

In una simile corsa all'oro non c'è tempo per soffermarsi sui dettagli: gli imprenditori, colti da improvviso slancio cultural-relativistico, preferiscono uniformarsi alle regole ivi vigenti, in un gioco in cui nessuna delle due parti (chi investe e lo stato in cui viene effettuato l'investimento) risulti danneggiata.

Quando i media cominciarono ad interessarsi alle agitazioni studentesche di ormai sedici anni fa, i "sovversivi" credettero che il momento della svolta fosse arrivato: i despoti del Partito Comunista non avrebbero più potuto muovere un dito senza che una eco informativa raggiungesse il mondo intero. Da qui, i numerosi cartelloni bilingue (col famoso slogan "Give me liberty or give me death"), il gridare rivolgendosi direttamente alle telecamere.
In Occidente, negli USA in particolare, tali eventi vennero salutati e propagandati come sintomi della "caduta del Comunismo" (vedere la copertina del Time coeva), e non come una ben più profonda e sentita necessità di uscire dall'isolazionismo e dalla repressione culturale che all'epoca affliggeva la Cina.

I dirigenti del Partito, dopo un repentino cambio al vertice (Zhao Ziyang simpatizzava troppo con le richieste di quegli studenti, e venne sostituito con il ritorno dell'autoritario Deng Xiaoping), colsero immediatamente i pericoli di una tale situazione e cominciarono con l'estromettere gli stranieri da Pechino, zittendo ogni dissidente e/o simpatizzante e mettendo in pratica il massacro di Piazza TianAnmen.

La Cina rampante di oggi la si deve proprio alle riforme economiche di Deng Xiaoping negli anni Ottanta, che attirò capitali esteri istituendo "Special Economic Zones" (SEZ), nelle quali vigevano trattamenti speciali e un mercato liberale.
La Cina odierna, culturalmente in bilico tra tradizione ed innovazione, tra osservanza dei dettami del PRC e cambiamento, la si deve proprio alla politica sociale di Deng Xiaoping.

Temo d'essere uscito fuori tema. Ci sarebbe proprio tanto di cui parlare: della memoria storica di certi eventi (compromessa dalla censura, per quanto riguarda la Cina), del gap generazionale nei Paesi emergenti, del tecno-orientalismo (un prodotto dell'occidente).
C'è un solo punto saldo: abbiamo deluso quella gente morta per la libertà, in nome del profitto.