sabato, agosto 27, 2005
martedì, agosto 23, 2005
Da ricordare
Art. 98
1. Il pubblico ufficiale, l'incaricato di un pubblico servizio, l'esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell'esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati od a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli all'astensione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 600.000 a lire 4.000.000.
lunedì, agosto 22, 2005
Nubi all'orizzonte
Sono dell'idea che lo stesso "vuoto" (inteso come assenza di una precisa coscienza morale e culturale) promulgato dalle ultime generazioni e guardato con orrore dai più, con la sua predisposizione all'esaltazione momentanea, abbia preparato il campo per un revival di tal sorta. Sia ben chiaro: non è che prima non si dicessero cose del genere o non si agisse in questa maniera. La questione è sorta nell'istante in cui tale corrente di pensiero ha acquistato un consenso massivo, una copertura mediatica e derivante rilevanza politica ben più ampi rispetto al passato.
Esplicativa in tal senso l'esperienza di Francesco Rutelli: da pupillo di Marco Pannella, da acceso promulgatore di lotte radicali, a esponente centrista sensibile al clero e agli elettori cattolici. Un vero opportunista, che ha fiutato nell'aria il cambiamento di rotta e che ha tentato di volgere la situazione in suo favore per le prossime elezioni, promuovendo l'assenteismo ai referendum di giugno e rifiutandosi di avallare un documento comune all'interno del centro-sinistra dichiarante la tutela della legge 194 (quella sull'aborto) come patrimonio della coalizione. Dovrebbe esser presente pure al Meeting di Rimini.
Dopo Follini e Casini, anche Pera rileva l'esigenza di un ruolo più attivo della religione (cattolica, of course) negli affari politici e pubblici in generale: "Fino a quanto si può relegare la religione nel privato, isolarla dalla politica, confinarla nella gabbia della soggettività?". Risposta: fino a che essa non offusca i valori democratici di una nazione laica. Fino a che non si impone una visione delle cose esclusivamente basata su princìpi assolutistici, secondo i quali esiste un solo sistema di riferimento con un solo verso positivo.
Ovviamente Pera e i suoi intendono varcare tali limiti: "C’è ancora chi crede che la democrazia sia la faccia istituzionale del relativismo morale. Questo è un errore pericoloso. Una democrazia relativista è vuota, ci fa perdere identità collettiva e ci priva di qualunque senso obiettivo del bene". Cosa sarebbe il relativismo cui si riferisce Pera? "La dottrina per la quale tutte le culture sono uguali, che non si possono comparare e non si possono porre su alcuna scala per giudicare se una è meglio dell'altra". Ecco! A questo puntano i neoteoconservatori: giudicare per giustificare qualsiasi idea, atteggiamento, o azione promossa "in nome di" un valore ritenuto arbitrariamente più alto.
La strategia è sempre la stessa: si denuncia una situazione di crisi (in questo caso culturale - che c'è, è innegabile), si demonizza l'ideologia avversaria distorcendola e svuotandola di contenuto, e si propone la ricetta. Il relativismo culturale è anzitutto uno strumento gnoseologico, volto alla conoscenza e alla comprensione di determinati contesti basato sulla premessa dell'universalità della cultura e della particolarità di ogni singola realtà. Non sposta il problema su un piano ontologico, né pone le cose in una prospettiva finalistica. Non annichilisce l'identità di chi indaga, né mira alla demolizione di una morale, sebbene questo sia accaduto. Il relativismo porta un effetto collaterale: poiché si assume come ipotesi la specificità di ogni realtà, si tende a valutare tali realtà come a tenuta stagna, come se tra più culture non potesse aver luogo una reciproca influenza. Ma ciò si supera mediante una riflessione aggiuntiva, non attraverso proclami assolutistici di dubbia onestà.
"Tanti laicisti, liberali, socialisti, comunisti e anche qualche cattolico cosiddetto 'adulto' hanno provato a dare un violento colpo di forbice ai valori: ora si accarezzano la guancia per lo schiaffo ricevuto al referendum". Secondo Pera e i suoi, la prova più convincente del rinascimento cattolico sarebbe il mancato quorum ai referendum sulla procreazione assistita.
Un assunto del genere ha delle basi a mio avviso debolissime: nessuno degli astensionisti sa quantificare con precisione il successo del loro messaggio, proprio perché è impossibile capire quanti abbiano deciso di non recarsi alle urne per consapevole scelta politica, per mero disinteresse, o per ignoranza. Si sfrutta un risultato che non si sa bene quale sia, e lo si erge ad emblema della restaurazione della religiosità. E' una strada oggettivamente pericolosa e disonesto è chi la percorre.
Mario Monti, sull'Espresso di alcune settimane fa, etichettò i movimenti antieuropeisti della LegaNord come followership, in contrapposizione al ruolo di leadership che dovrebbe svolgere ogni partito politico. Si cavalcano gli umori delle masse al fine di ottenere facili consensi, senza indicar loro una via da seguire. Credo che Pera si stia comportando alla stessa maniera: esprime i topoi del suo pubblico, badando più all'opinione che alla realtà oggettiva dei fatti. Ironia vuole che anche questo, nel suo piccolo, sia relativismo. Non quello di Herskovits, certo, ma quello più antico di Protagora.
L'Europa, si diceva. "In Europa si evitano di menzionare nella Costituzione le radici giudaico-cristiane, si condanna un politico (Rocco Buttiglione), anche se si dichiara rispettoso della legge pubblica, perché sull'omosessualità afferma i suoi convincimenti morali cristiani".
Nella Costituzione non si evitano soltanto le radici giudaico-cristiane, bensì anche quelle greche e quelle romane. Menzionarle non avrebbe avuto senso alcuno.
Andiamo a guardare il trattato. Nel Preambolo alla Parte II, quella sui diritti fondamentali dei cittadini dell'Unione, si esplicitano i punti di contatto tra i valori dei Paesi Membri:
"Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l'Unione si fonda sui valori indivisibili e
universali della dignità umana, della libertà, dell'uguaglianza e della solidarietà; essa si basa sul
principio della democrazia e sul principio dello Stato di diritto. Pone la persona al centro della sua
azione istituendo la cittadinanza dell'Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia."
Questi sono i princìpi etici dell'UE; se poi alcuni di essi sono frutto della cristianità è un fatto secondario, superfluo ai fini del discorso: quello di affermare una condotta morale comune in Europa.
Pera affonda: "In Europa la popolazione diminuisce, si apre la porta all'immigrazione incontrollata e si diventa meticci". A me risulta che il cristianesimo a Roma non sia sorto spontaneamente, ex abrupto, ma sia giunto da fuori. Che abbia adottato delle forme di paganesimo, mischiandosi alle popolazioni italiche. Bene il monito ad una più controllata immigrazione, ad una più sensata convivenza sociale; male il senso reale del discorso: chiudere gli occhi dinanzi alla diversità, piegare la democrazia alla religiosità.
venerdì, agosto 19, 2005
giovedì, agosto 18, 2005
Videre
Quel che mi chiedo è: questa preponderanza - quasi tracotante - del vedere rispetto agli altri sensi ed anche allo stesso intelligere è prerogativa dell'uomo contemporaneo (homo videns), o tale percezione della realtà e conseguente connessione tra le impressioni sensoriali e le idee affonda la propria origine nell'essenza dell'homo sapiens stesso? Raramente mi sono trovato nella situazione in cui mi trovo adesso: non aver la più pallida idea da dove cominciare.
lunedì, agosto 15, 2005
Il ritiro da Gaza
A) La resistenza oltranzista di 9000 coloni (ai quali deve essere aggiunta anche la moltitudine di militanti di estrema destra accorsi per l'occasione) creerà sicuramente grattacapi ai militari, che interverranno casa per casa. Ancora oggi non si sa con precisione quanto tempo sia necessario alla smobilitazione: si prevedono dalle due alle tre settimane ma col beneficio del dubbio.
B) Sharon deve fronteggiare l'ira dei resistenti "arancioni", per lo più composti da religiosi. Ma la protesta non si ferma solo in tale ambito (comunque vasto, parlando d'Israele): manifestazioni con ampio consenso non si sono viste soltanto nella santa Gerusalemme, ma anche nella laica Tel Aviv, con una partecipazione popolare nell'ordine di alcune centinaia di migliaia di aderenti.
Inoltre la spaccatura all'interno del Likud restituisce un altro pretendente alla presidenza: Netanyahu, esponente politico ancora più a destra dell'attuale premier Sharon. Il quale, a sua volta, preferisce una più rischiosa corsa alle primarie all'interno del partito piuttosto che fondare una nuova forza politica centrista con alleati Peres e Lapid.
C) Il rapimento di un tecnico della tivù francese va ad inserirsi nel quadro confusionario della situazione. Sicuramente sparuti gruppi di palestinesi esaltati contribuiranno all'entropia generale di quell'area.
D) Hamas e gran parte dell'opinione pubblica palestinese ritiene il ritiro dalla Striscia solo il prodromo di una "reconquista" totale di Gerusalemme, obiettivo che reputano da perseguire senza compromessi. Ecco, è questo il punto che mi genera maggiori preoccupazioni: e se l'operazione non servisse a niente?
Da ottobre, la palla passerà inevitabilmente ad Abu Mazen. Vedremo cosa succederà.
domenica, agosto 14, 2005
sabato, agosto 13, 2005
Scienza e consenso popolare
La chiavarda del problema, dunque, è quell'anello di congiunzione, quella porta parallela di interscambio tra comunità scientifica e grandi masse: la divulgazione. In Italia, fatto noto a tutti, non esiste una diffusa pratica divulgativa: ad eccezione di SuperQuark, Le Scienze e poche altre testate, prevale un'attitudine sapientemente descritta da Trombetti, quella atta a "suscitare meraviglia (lo scoop) piuttosto che a trasmettere il metodo scientifico". Le conseguenze sono gravi: sfugge ad esempio il semplice e fondamentale concetto che ogni affermazione scientifica sussiste entro un determinato campo di esistenza, che la valenza di ogni tesi è definita dalle sue ipotesi. Non esistono asserti "assoluti", non esistono verità incontrovertibili, niente ipse dixit.
La frequenza di "aggiornamento" e/o di rivoluzione delle teorie spesso disorienta la gente, generando prima confusione, poi disinteresse, ed infine sfiducia. Questo accade proprio perché il metodo scientifico non è trasmesso a sufficienza.
Delegare tutta la responsabilità agli organi di informazione, però, sarebbe riduttivo e pretenzioso: anche la scuola dovrebbe fornire conoscenze e strumenti interpretativi in tal senso e, per quanto mi risulta, lo fa. Il problema evidentemente sta nel fatto che il suo messaggio non è abbastanza competitivo, impallidisce di fronte al culto dello scoop, di fronte alla potenza della meraviglia, alle tentazioni dell'ozio intellettuale e a situazioni contingenti che adesso definirò.
Nonostante la scuola sia aperta a tutti, non vuol dire che tutti possano frequentarla: nel nostro Paese vivono circa due milioni di analfabeti funzionali, e negli Stati Uniti addirittura quindici (ma ho sentito cifre più alte). Si tratta di individui con serie difficoltà nel compilare moduli di abbonamento al treno o di comprendere le condizioni di garanzia del nuovo televisore.
A ciò si aggiungono le classi sociali più povere, strette da esigenze ben più pressanti rispetto a quella sinora evidenziata.
Si potrebbe obiettare che gruppi più o meno vasti di persone disinteressate alla scienza e/o con un'idea imprecisa della stessa sono sempre esistiti nella storia contemporanea. Prendiamo come esempio in tal senso il rapporto tra creazionisti ed evoluzionisti negli Stati Uniti:
"Secondo un celebre sondaggio Gallup del 2001, basato su oltre 1000 interviste telefoniche, almeno il 45% degli adulti statunitensi concordava con l'affermazione secondo cui 'Dio creò gli esseri umani, con una forma pressoché identica all'attuale, nel corso degli ultimi 10mila anni circa'. Per costoro, quindi, l'evoluzione non ha avuto alcun ruolo nel farci diventare ciò che siamo. Solo il 37% degli americani intervistati era disposto ad ammettere una coesistenza fra Dio e Darwin [...]. Uno striminzito 12% ritiene che la specie umana si sia evoluta da altre forme di vita senza alcun intervento divino."
"L'aspetto più sconcertante di queste cifre non è che tanti americani rifiutino l'evoluzione, ma che la distribuzione statistica delle risposte sia cambiata ben poco in 20 anni. La Gallup ha proposto gli stessi quesiti nel 1982, 1993, 1997 e 1999. La convinzione creazionista non è mai scesa sotto il 44%." (da National Geographic Italia, Novembre 2004, pagina 6)
Se i creazionisti negli USA compongono da tempo una parte consistente della popolazione, come mai allora l'ultimo esplicito assalto - prima di quelli odierni - a Darwin risale a parecchi decenni fa? Da cosa hanno ripreso forza politica queste masse?
La prima risposta che mi viene in mente è: i principali e più potenti sistemi di comunicazione mediatica, ovverosia televisione e Internet, hanno concesso e concedono voce in capitolo alle più disparate correnti di opinione. Quanto più sono weird, stravaganti ed aggressive (ma soprattutto semplici), tanto più guadagnano spazio nel flusso delle informazioni quotidiane, per motivi di audience. In questa maniera, sparuti gruppi di adoratori dell'elefante intergalattico, ad esempio, precedentemente ignari dell'esistenza di altri omologhi, prendono coscienza di sé, decidendo infine di proporre i propri contenuti in maniera attiva, senza aspettare il microfono di un famoso cronista: la scelta, per forza di cose, ricade sulla Rete (per ragioni di efficacia), oltre che sulla politica (attenzione: non biasimo il meccanismo, ma l'uso che se ne fa).
Basta fare una ricerchina veloce veloce con un qualsiasi motore di ricerca per accorgersi della situazione, che vede protagonisti non solo i rampanti teo-con, ma anche i sostenitori dell'esistenza dei fantasmi, dell'origine extraterrestre delle nostre tecnologie più avanzate, di rattoppate filosofie orientaliste, di complotti vari e via discorrendo. Tutti con un obiettivo, più o meno collaterale e più o meno conscio: svilire la conoscenza scientifica. Su diversi forum ho visto persone scambiare i satelliti di Saturno per Ufo, costruendo affascinanti (ma insensate) teorie in proposito; ho visto dei granelli di polvere immortalati nelle fotografie venir chiamati "orbs" e catalogati tra i fenomeni paranormali. Ho visto inoltre un esplicito astio verso gli scienziati, definiti "arroganti" nel migliore dei casi, se non "disonesti" disposti a tutto pur di aver credito. I più arditi ripetono come un leit motiv la seguente affermazione: "la scienza non può spiegare tutto". E così giustificano anche la più infima delle cretinaggini, in virtù di una incomprensibile apertura mentale.
Ecco i nuovi fideismi (ai quali facevo riferimento ad inizio post) che, fiancheggiati dalle tradizionali e/o settarie confessioni religiose, dalla confusione generale cui contribuiscono media e affini (cinema, fiction televisive, libri: penso che di questa parentesi parlerò la prossima volta), minano la comprensione e la conseguente accettazione del metodo scientifico e della scienza stessa.
Parlavo della divulgazione come porta parallela perché anche le grandi masse possono influenzare la scienza, determinarne il corso: innanzitutto perché gli scienziati non discendono da un iperuranio misterioso, ma provengono dal tessuto sociale di ogni nazione; in seconda istanza, perché nelle democrazie il popolo decreta la condotta politica ed etica da adottare entro un determinato arco di tempo, e dunque anche il mondo scientifico deve uniformarsi ad essa (il caso più lampante è proprio la legge 40/2004, quella sulla fecondazione assistita).
giovedì, agosto 11, 2005
i Na
da Viaggio nella Cina proibita, di Luc Richard, pg. 67-68
[...]
<< E' soltanto da pochissimo tempo che si è cominciato a sapere dell'esistenza dei Na fuori dalla Cina. In Francia, recentemente, un etnologo ha dedicato loro un libro di notevole valore. Da allora, gli articoli e i reportage si sono moltiplicati. Credendo di aver finalmente trovato una degna alternativa al soffocante predominio maschile, e cioé un modello da contrapporre al concetto insopportabile della paternità, molte femministe francesi, olandesi e americane giungono oggigiorno nella regione del Lago Lugu. Il cocktail di buddismo e "libertà sessuale" fa furore presso le sostenitrici della guerra dei sessi, per le quali l'Asia altro non è che un supermercato della cultura. Costoro vorrebbero trapiantare in occidente alcune pratiche orientali di difficile assimilazione, e lo spettacolo di questi moderni Narcisi di sesso femminile che tessono l'elogio di comunità tradizionali e di una religione fondata sulla negazione dell'io non è meno sorprendente.
Un giornalista francese è arrivato al punto di scrivere, sul supplemento del quotidiano "Le Monde" dedicato ai libri, che l'esistenza di questo popolo avrebbe rimesso in discussione la centralità della famiglia nella concezione giudaico-cristiana della sua origine. D'altronde questo era l'unico elemento dei Na che lo interessava veramente. E, come aveva spiegato benissimo Jugdu (una donna Na incontrata precedentemente dall'autore, ndemack), i Na credono da sempre che l'uomo non giochi alcun ruolo nell'atto della procreazione. Secondo loro, la donna porta dentro di sé l'"osso", lo scheletro del suo bambino, mentre l'uomo, l'amante di una notte, non c'entra nulla. Presso i Na l'assenza del concetto di paternità deriva da una credenza che, ignorando la partecipazione dell'uomo al processo della procreazione, nega la realtà.
Ciò che è indiscutibile, in compenso, è che al contrario di tutte le altre società, questa rimette in discussione l'idea del matrimonio e della famiglia come fondamento dell'ordine sociale. L'esistenza dei Na è di per sé la prova che una società di stampo tradizionale può funzionare sulla base di un modello diverso, e, come abbiamo avuto modo di constatare, può benissimo mantenersi in equilibrio.
Quando rientrammo nella stanza principale, ci stavano aspettando per mangiare. Prima di servire, la donna più anziana mise un po' di cibo sulla tavoletta di pietra dietro il focolare. Dopo mangiato, uscimmo a prendere un po' d'aria. A differenza dei villaggi han, che di notte erano immersi in un silenzio di tomba, qui vi era un certo fermento. Uomini andavano e venivano in bicicletta o si spostavano da una casa all'altra. Ai lati della strada si formavano capannelli che echeggiavano di risate. Non era certo difficile immaginare come avrebbero occupato la loro serata...>>
[...]
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Questo è un passaggio di un libro che ho avuto modo di assaporare qualche tempo fa, e che mi ha fornito un notevole numero di spunti di riflessione su molteplici argomenti. Restando negli ambiti di tale brano, le questioni di cui vorrei dibattere sono le seguenti:
1) L'Occidente sembra aver scoperto un ricchissimo giacimento culturale, in Asia. La crisi generale (o sarebbe meglio parlare di semplice "flessione"?) delle religioni occidentali ha lasciato spazio a quelle orientali, percepite maggiormente "a misura d'uomo" per l'individuo contemporaneo. Anche il massiccio flusso migratorio da est verso ovest, e la definitiva globalizzazione economica, ha fatto sì che ci imbattessimo, nella maggior parte delle occasioni per via indiretta (libri, o documentari, o racconti, o racconti di racconti, e via discorrendo), in realtà diverse dalla nostra.
E io credo che Luc Richard abbia fatto bene a utilizzare la locuzione "supermercato della cultura", perché sintetizza l'approccio della stragrande maggioranza degli occidentali dinanzi a contesti eterogenei: si è diffusa la mentalità da fast food, del mese a tema messicano o cinese, con le solite patatine e i soliti hamburger mascherati. L'idea stessa che si ha dei tibetani - popolo dai più considerato come mansueto, ma che in realtà possiede una storia costellata di atrocità e orgoglio - penso costituisca ulteriore prova di tutto questo.
2) Spesso abbiamo dei concetti standardizzati dei vari popoli terrestri. Io stesso ho commesso l'errore di ritenere i cinesi "gente dagli occhi a mandorla, numerosa, oppressa da un sistema centrale pseudocomunista" e stop. Invece, in Cina (che, come mi ha fatto notare l'agnellino, era - ed è - un impero) coesistono miriadi di culture variegate, roba da far impallidire la "questione italiana" (che, lasciatemelo dire, viene veramente tirata per le lunghe).
3) In un mondo dominato dalla centralità del maschio e dall'importanza della famiglia patriarcale e "ristretta", (soprav)vivono anche differenti società, aliene ai nostri usi e costumi, che spesso esulano dalla nostra comprensione. Il modello dei Na si basa sulla preminenza della donna (non è comunque l'unico popolo ad avere questa attitudine, naturalmente), su un concetto di famiglia estremamente "allargata" (sebbene l'incesto sia riconosciuto come atto ripugnante), nella quale nessuno conosce di quale uomo discenda. Letterale applicazione della massima "mater semper certa est, pater numquam", insomma.
L'autore riconosce che la cultura Na si basa su una "negazione della realtà"; sebbene non sia in grado di quantificarli, io credo che numerose "negazioni della realtà" siano diffuse anche nel resto del mondo. Anche il concetto secondo il quale spesso e volentieri riteniamo "naturale" un certo comportamento (ad esempio la promiscuità sessuale cui anela il maschio), è stato, in una certa misura, smentito dalla realtà dei fatti (l'uomo non è una macchina con funzioni e comportamenti preimpostati; più precisamente lo rivelano recenti studi sul cervello umano). E, allora, non ci resta che arrenderci alle contingenze storico-geografiche, o è davvero possibile giungere ad un qualcosa di assoluto?
mercoledì, agosto 10, 2005
Costruire il consenso
Chomsky sostiene che negli USA non esiste una vera e propria agenzia propagandistica governativa, né un orwelliano "ministro della verità" che censura tutte le opinioni e tutte le informazioni non uniformate al regime. "Qui la stampa è sostanzialmente libera di agire come vuole". Naturalmente ci sono pressioni dall'alto, ma in linea di principio non si è vincolati ad alcunché di prestabilito. Nonostante questo, l'uniformità di attitudini dinanzi alla guerra in Afghanistan da parte dei maggiori media è impressionante. Chomsky fa un paragone con la Germania all'epoca della Prima Guerra Mondiale, la quale, sprovvista di istituzioni di propaganda (di cui erano invece forniti Gran Bretagna e USA), godette di un amplissimo consenso da parte dei suoi intellettuali di maggior rilievo, pur provenienti da diversi retroterra culturali e politici.
E' poi chiamata in causa la candida testimonianza di un giornalista della CBS, Dan Rather, insistente in pratica su un punto: in America l'informazione sulla guerra è meno critica rispetto al resto del mondo perché sussiste il timore di essere etichettati come "antipatriottici". Questa, che può sembrare una ragione di scarsa importanza, va invece inserita nel contesto culturale statunitense, il quale evidentemente prevede una sorta di gogna pubblica, di esilio intellettuale, a chi infrange i "mores", i valori, cioé a chi non è patriottico. Chiamando in causa le parole di Chomsky, "non è una questione di educazione scolastica, ma dell'intero sistema".
Però, naturalmente, i motivi non risiedono tutti qui (e neanche lo stesso Chomsky lo afferma, ma non si dilunga in altro genere di dissertazioni). Può darsi che esistano "persone benestanti che non hanno interesse affinché certe idee vengano espresse".
Nel saggio Global Media, Neoliberalism & Imperialism, Robert McChesney rileva la seguente situazione: "Specifiche industrie mediatiche stanno diventando sempre più concentrate, e i giocatori dominanti in ogni industria mediatica stanno diventando sussidiari di conglomerati mediatici globali [...] Il mercato mediatico globale è in mano a sette multinazionali: Disney, AOL Time Warner, Sony, News Corporation, Viacom, Vivendi, e Bertelsmann. Delle sette, solo tre sono squisitamente statunitensi, sebbene tutte abbiano interessi in America. Queste sette compagnie possiedono i maggiori studi cinematografici americani, tutti - tranne uno - i network televisivi americani, controllano l'ottanta percento della musica globale, hanno la preponderanza delle trasmissioni su satellite, una significativa percentuale di pubblicazione di libri e riviste, [...] gran parte della televisione tradizionale Europea, e così via."
Dinanzi ad un quadro del genere, non è difficile comprendere come il mondo del giornalismo, dell'informazione e della cultura in genere siano sempre più uniformati agli interessi di suddetti giganti, instillando un costume politico conveniente alle major.
Ben Bagdikian fa notare un fondamentale particolare: "nel 1983, la più grande compagnia della storia era materia di 340 milioni di dollari, quando la Gannett Company, una catena di quotidiani, acquistò la Combined Communications Corporation, proprietaria di quadri per le affissioni pubblicitarie, giornali, e stazioni broadcast. Nel 1996, quando la Disney si unì ad ABC/Cap Cities, era un affare di 19 miliardi di dollari, cinquantasei volte più grande". Nacque un gigante, con le sue mire sul mercato e la sua politica commerciale.
"La democrazia rappresentativa non si caratterizza come un governo del sapere ma, appunto, come un governo dell'opinione, fondato su un pubblico sentire de re pubblica". Ce lo insegna il Sartori (in Homo Videns, pagina 44, Laterza). Ma, se questo sentire, se l'opinione pubblica ricalca il sistema di idee proposto da pochi padroni dell'informazione (che poi sono anche padroni, come si è visto, del cinema, della televisione, della musica), beh, il cerchio si chiude: ad eleggere i propri rappresentanti politici sarà un pubblico informato e formato (si perdoni il gioco di parole) da succitati oligarchi, e si insedieranno al governo personalità allineate al sistema.
Altro che ministro della verità.